lunedì | by Stefano Reves S. | , , , , , ,


Il ddl (P)astella

E’ preferibile sorvegliare e punire il delitto a sfondo razziale, oppure silenziare penalmente ogni opinione discriminatoria con il rischio di equipararla al negazionismo e confondere la giustizia? Anche la legge firmata dal ministro Mastella, e approvata giovedì in Consiglio dei ministri, si espone all’interrogativo. L’articolato del provvedimento conferma i punti centrali della relazione illustrativa: il ddl reintegra i principi del decreto concepito da Nicola Mancino nel 1993, quando l’attuale vicepresidente del Csm era ministro dell’Interno e decise di stroncare il così detto fenomeno dei “naziskin” reprimendo (fino a tre anni di carcere) la diffusione d’idee fondate sulla superiorità e l’odio razziale. Mastella fa qualcosa di più. Non solo oblitera un’altra legge del 2006 che aveva dimezzato la pena per introdurre un’ammenda pecuniaria e che aveva sostituito i termini “propaganda” e “istigazione” ai più generici “diffusione” e “incitamento”. Il nuovo ddl ripristina “la condotta di incitamento in luogo dell’istigazione (fattispecie più circoscritta)” ma in più “intende estenderne l’applicazione alle discriminazioni motivate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale”. E così arriviamo al cuore di un provvedimento che doveva nascere con il fine di censurare il negazionismo, e che invece, con la sua fisionomia così poco circostanziata, finisce per mettere sotto tutela la libertà d’opinione. Non fosse abbastanza chiaro, citiamo ancora dal ddl: “Intende proclamare un principio di valenza generale, sancendo l’equivalenza tra le discriminazioni causate da motivi razziali e quelle causate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale delle persone”. Il che richiama due ordini di problemi. E’ evidente che l’iniziativa del governo s’inscrive nel paesaggio grande e contraddittorio delle democrazie occidentali alle prese con il bisogno di prevenire culturalmente ogni attentato alla memoria della Shoah. Anche ricorrendo all’ausilio del codice penale e con una serie di effetti per lo meno limitativi nei confronti della libertà di pensiero. Un fenomeno presente da tempo, con alterne complicazioni, in undici paesi europei: Francia, Germania, Spagna, Olanda, Belgio, Austria, Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Lituania. Nel caso di Mastella questa è una spiegazione, non una scusante: la sua legge ha perso letteralmente di vista il negazionismo per non mortificare la ricerca storica opponendole una verità di stato. Ma ha generato un’esplosione di universalismo dei diritti politicamente corretti: mentre vezzeggia tutte le identità astratte, rischia di rovesciarsi nella negazione della loro libertà concreta.

Lo spettro del Codice Rocco
Bisognava ricordarsi, o no, che la Corte europea ha sentenziato soltanto sul negazionismo equiparato alla falsificazione della storia? Ma forse il nostro governo ha preteso di collegarsi alle disposizioni della Francia. Qui, alla legge Fabius-Gayssot contro “il delitto di revisionismo” (1990) è subentrata nel 2003 la legge Lellouche che punisce una fattispecie larghissima denominata “provocazione alla discriminazione”. Magari le velleità di partenza erano buone come nella settecentesca Dichiarazione dei diritti. Però ne è derivata una contorsione tale che lo scrittore Michel Houellebecq è finito sotto processo per aver svalutato l’islamismo in un libro (“Platforme”) nel quale all’occidente non viene riservata maggior simpatia. E Oriana Fallaci chissà che fine avrebbe fatto. A questo si sommano altre ambiguità in paesi che reprimono il negazionismo: l’Austria “ha condannato David Irving, ma non è riuscita a evitare Haider” (Stefano Rodotà su Repubblica di Sabato), il Belgio ha messo fuori legge il Vlaams Blok per ritrovarselo più forte con il nome di Vlaams Belang, la Romania ha il suo Cornieliu Vadim Tudor. L’Italia non sembra volersi distinguere, ma al potere o al dovere tragico di punire la parola negazionista ha voluto aggiungere di tutto e di più. La nostra legge Scelba contro la ricostituzione e l’apologia del fascismo (1952) ha un chiaro valore storico, ma nasce su misura e viene ulteriormente perimetrata nel corso degli anni. Lo stesso Mancino, nel 1993, non immaginava di allargare la circonferenza della discriminazione a un piano scivoloso com’è quello della differenza di genere. Per poi metterci dentro, sotto la voce “diffusione”, una folla di reati a mezzo bocca. Lo ha fatto Mastella, avvicinandosi all’orizzonte culturale che generò i “Provvedimenti” contro la manifestazione del pensiero contenuti nel Codice Rocco. Si tratta di commi ereditati dallo Statuto albertino e che punivano perfino “l’apologia dell’apologia”. Non sarà facile da spiegare a un giudice democratico.