venerdì | by Stefano Reves S.



L'anno più lungo della Palestina:
il primo senza Arafat

L'11 novembre del 2004 moriva a Parigi Yasser Arafat. Egli regnava sull'Olp, l'Autorità Palestinese e sul suo partito al-Fatah come un sovrano assoluto. Il sistema del suo ferreo potere era consolidato dall'antico esercizio del "divide et impera", da nepotismo e clanismo. Gli interessava conservare il potere interno a scapito dell'evoluzione politica (cioè la democrazia). Temeva veder spuntare, da un giorno all'altro, dei dirigenti locali indipendenti. Aveva creato dei sottocentri di potere separati: ciascuno era legittimato dal Rais e solo lui ne era l'unico interlocutore. Arafat concentrava nelle sue mani formalmente tutti i poteri: la direzione dell'Olp, quella di al Fatah e dell'Autorità Palestinese. La fedeltà dei cacicchi di questa galassia del potere era pagata a peso d'oro dal Rais che sottraeva ingenti risorse dal fiume di denaro degli aiuti inviati ai palestinesi dai Paesi arabi, dall'Europa, dalle organizzazioni umanitarie. La retorica del nazionalismo, esasperata da Arafat e dalla sua cricca - giustificata dall'occupazione israeliana, dalla repressione nei Territori e dall'Intifada - mascherava questa disinvolta gestione degli affari di (quasi) Stato. La corruzione talmente generalizzata ha indirettamente favorito l'ascesa dell'integralismo, in particolare di Hamas (specie nella Striscia di Gaza, dove le condizioni sociali ed economiche sono disastrose), in quanto unica forza che si batteva contro le derive finanziarie e gli arricchimenti sospetti.
Su Arafat, sulla sua figura di leggendario paladino dei diritti palestinesi, sono stati pubblicati più di duemila saggi, in tutto il mondo, dagli anni Sessanta al 2004. Dopo, il silenzio o quasi. Il quasi - sorpresa, sorpresa - è frutto di uno studio-testimonianza apparso sulla "Revue d'études palestiniennes" (n°96, 14,50 Euro) che ha appena pubblicato sotto l'intrigante titolo "Yasser Arafat, primo bilancio critico", un dibattito tra tre intellettuali ( Shafiq Al Hout, Mahmud Soueid, direttore dell'Istituto degli studi palestinesi di Beirut e il giornalista Ahmad Khalife) e un articolo sulle "regole della gestione politica del rais" scritto dal politologo Bilal Al-Hassan. Si può così leggere che l'amministrazione di Arafat, il disinvolto uso del denaro "ha pervertito le nostre strutture"; che al-Fatah era parte "del sistema arabo dominante"; che Arafat aveva "tendenza all'attivismo e al disprezzo del dibattito"; che è stato responsabile del fallimento della lotta armata e la lunga incomprensione di ciò che è Israele; che l'assenza di bilancio delle sconfitte faceva il paio con l'eterna "autillusione", durata sino alle ultime ore della sua vita, anche quando era assediato dentro la Mukata. Purtroppo, commenta amaramente Al-Hout, "il periodo arafattiano è destinato a durare per qualche tempo senza Arafat. Perchè tutti coloro - e sono numerosi - che sono impegnati nella causa palestinese sono ancora prigionieri du mode de direction d'Arafat'". La continuità, per ora, prevale sul cambiamento.
Significativa la testimonianza con cui si ricorda come Arafat tenesse in pugno tutto. Facciamo un salto indietro nel tempo di tredici anni e mezzo. Aprile del 1992: l'aereo su cui viaggiava Arafat si schianta nel deserto di Libia. A Tunisi, i responsabili palestinesi non hanno notizie, non sanno se il Rais è salvo o se è perito nell'incidente. Shafiq al-Hout, membro fondatore dell'Olp, non ha dimenticato: "I dirigenti di al-Fatah, nessuno escluso, si allargarono in critiche (che prima ben si gaurdavano dal fare pubblicamente). Dicevano: si devono mettere dei limiti a quest'uomo. Tiene tutto: le finanze, la direzione, i contatti. Che Dio ce lo riporti sano e salvo. Ma bisognerà, se ne esce fuori, rivedere tutto ciò". Arafat ricompare due giorni dopo. Non cambierà nulla, all'interno dell'Olp. Anzi. Il rais rafforza le sue prerogative e i suoi metodi per preservare gli equilibri tra le tendenze antagoniste e coalizzate che potevano rendergli più difficoltosa l'accentrata gestione del potere.
Foto Wikipedia, Commenti Repubblica